GUERRE IN CLASSE

di Gianluca Gabrielli

Come si affrontano le guerre in classe? Intendo nelle classi della scuola primaria. Come si discute delle guerre calde, quelle che accadono mentre la scuola è aperta e che colpiscono per varie ragioni in maniera molto forte i bambini e le bambine? Ci si muove con molta cautela, cercando di dare strumenti e suggestioni utili a contrastare le ansie, di cogliere le occasioni per dare informazioni, per aprire discussioni, per raccogliere notizie e pareri, accettando le diverse opinioni pur provando sempre a metterle in discussione. Tutto ciò, un paio di anni fa, mi sembrava abbastanza chiaro; però poi quando capita di nuovo di passarci attraverso, tutto torna ad essere difficile.

 

Prima guerra

Questa volta il discorso era particolarmente caldo perché nella quarta classe di scuola primaria, due anni fa, è arrivato un bambino dall'Ucraina. In questa prima fase il percorso è stato abbastanza lineare. Non è stato difficile organizzare l’accoglienza e il sostegno solidale da parte degli altri bambini della classe, dare qualche informazione sul conflitto in corso, esaminare solo in casi particolari la violenza connessa alla guerra, solo quando diventava necessario perché dagli stessi bambini nasceva la richiesta di informazioni, di dettagli, di spiegazioni rispetto a ciò che arrivava loro da tv e social.

Il tema della guerra ci ha accompagnato quindi per l'intero anno scolastico così come il processo di integrazione del nuovo compagno nella classe. Quando abbiamo affrontato un lavoro sulla Resistenza italiana e sulla privazione della libertà di una staffetta partigiana sono emerse domande e riflessioni sulla guerra in corso in Ucraina con analogie e differenze rispetto alla Seconda guerra mondiale; attraverso questi confronti, sempre originati da domande delle bambine e dei bambini, era possibile fornire piccole conoscenze sulle contingenze di questa guerra (parti in causa, capi, differenze delle armi rispetto al passato, difficoltà di avere informazioni sicure…) e al contempo aprire grandi tematiche (disumanità, impotenza nostra e della popolazione, coinvolgimento passivo dei civili, impegno ideale per la pace). Nella discussione entravano, portati da casa, i diversi posizionamenti rispetto alle parti in causa, che nel corso della discussione in classe si confermavano o si modificavano, evidentemente in virtù della presenza del compagno di classe che era dovuto allontanarsi da casa, cosicché progressivamente ha messo radici una interpretazione condivisa a sostegno dell’Ucraina, contro l’invasione russa.

Non sono mancati i momenti di crisi: nell'ambito dei travestimenti che nascevano nel gioco libero, il nome di Putin solitamente veniva scelto dai bambini per rappresentare i personaggi negativi, ma a fronte dei conflitti veniva anche tirato fuori per fare dispetto, usato per colpire. Per quel che siamo riusciti a monitorare, anche se non è sempre facile perché buona parte delle relazioni tra i pari non emergono o non sempre arrivano agli insegnanti, il tutto si è mantenuto sui binari di una dialettica sostanzialmente comprensibile e fisiologica.

Ma la guerra non è finita con il termine delle lezioni e poco dopo l’inizio dell’anno scolastico successivo un nuovo conflitto caldo si è aperto, sovrapponendosi al primo: l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la lunga ritorsione di Israele che è continuata per l’intero anno scolastico e solo oggi si è momentaneamente interrotta.

 

Seconda guerra

Questa volta i bambini della classe maggiormente coinvolti erano altri, bambini nati in Italia ma con nonne e nonni in molte parti del mondo. Si sentivano coinvolti non direttamente come profughi dalla terra del conflitto ma come sostenitori del popolo palestinese. La causa palestinese è sentita particolarmente vicina dalle popolazioni del Magreb e dalle popolazioni asiatiche di religione islamica, ma anche da popolazioni del sud del mondo che solidarizzano in senso anticoloniale con il diritto sempre negato ad uno stato palestinese.

In classe l’anno precedente, in relazione al lavoro sulla Resistenza, avevo raccontato del razzismo nazista e fascista e della persecuzione degli ebrei; in quel contesto c’era stata l’occasione di accennare alla Shoah collocandola nel contesto della Seconda guerra mondiale e delle deportazioni nei campi, cioè cercando di dare uno sfondo storico alla persecuzione degli ebrei d’Europa. Ma ovviamente si era trattato solo di poco più di un accenno. Da novembre del 2023, la discussione sulle guerre si è aperta diverse volte e ho provato a riprendere il discorso dell’anno precedente per fornire almeno alcuni elementi di spiegazione della nascita dello stato di Israele dopo la Seconda guerra mondiale, avvenuta a spese della popolazione araba che in maggioranza abitava quel territorio e quindi della contestuale nascita della “questione palestinese”.

Iniziando queste discussioni non speravo di far nascere un’opinione condivisa nella classe, ma piuttosto di creare uno spazio pubblico protetto per fare uscire i pensieri su un tema tanto delicato quanto potente. Infatti la maggior parte di alunni e alunne avevano opinioni, tratte da casa e orecchiate dai media, e la classe era lo spazio, il più possibile non giudicante, nel quale metterle alla prova, confrontarle con opinioni diverse e con alcuni principi (difesa della pace, condanna delle armi, diritto alla libertà) che in parte erano stati assunti dal gruppo classe.

Inizialmente sono risultate praticabili proposte di mediazione che tenessero conto da una parte della posizione emotiva che gran parte dei bambini sosteneva (a favore della Palestina, vista come vittima di negazione dello stato e vittima dei bombardamenti) e dall’altra della necessità di uscire dal conflitto chiedendo pace e diritti per i due Stati. In questo periodo, tra novembre e gennaio, nei disegni liberi sono comparse le bandiere, dapprima anche qualche tentativo di affiancare bandiera palestinese e israeliana, ma poi presto, man mano che passava il tempo e continuavano i bombardamenti, solamente bandiere palestinesi. A quel punto è stato chiesto in una di queste discussioni di appendere ufficialmente una bandiera palestinese e la mia proposta di mediare appendendo la bandiera della pace non è stata accettata. La bandiera arcobaleno ci ha poi accompagnato nelle due gite scolastiche, quasi come una dimensione simbolica pienamente condivisa della classe, ma non è mai stata considerata da una parte dei bambini sufficiente a rappresentare la loro opinione sul conflitto in corso a Gaza.

In primavera quindi la situazione si era andata irrigidendo. Saltuariamente aprivamo il confronto a partire dalla segnalazione di elementi di cronaca, ma era difficile andare oltre l’angoscia per il dramma delle popolazioni bombardate e anche l’atteggiamento da “tifosi” che ne derivava non lasciava tanto spazio all’analisi. D’altronde l’ottica del tifoso governa anche l’attuale dibattito pubblico, ormai è difficilissimo nei social e in tv sentire interventi che propongono rassegne di dati e punti di vista diversi, così come è quasi impossibile vedere ospiti televisivi che si pongono in atteggiamento di ascolto verso i loro interlocutori. L’ottica del tifoso viene perciò assorbita e introiettata dai tele o social ascoltatori e arriva direttamente in classe, estremamente difficile da smontare. In più bisogna aggiungere il coinvolgimento emotivo che l’assedio di Gaza provocava in molti bambini della classe, per nulla facile da gestire a scuola.

 

Tensioni sotterranee

Un episodio significativo di queste tensioni è emerso per caso, attraverso uno dei “rilevatori indiretti” della vita scolastica che è il “diario dei pensieri” (un quaderno individuale in cui registrare una o due volte la settimana i pensieri liberi). Una bambina un giorno ha raccontato un avvenimento più o meno con queste parole: “A scuola tutti tifiamo Palestina e non Israele, perché c’è una guerra tra loro due. C’è solo un bambino che tifa Israele, e noi gli abbiamo detto: ‘Russia, Russia, Russia’ perché c’è una guerra tra Ucraina e Russia. Prima avevamo detto: ‘povera Ucraina’, ma adesso ‘povera Russia’. Anche mia sorella ha detto così”. Anche se queste tensioni si erano sviluppate a scuola, io non avevo percepito nulla. In quella cronaca emergeva il mondo, difficile da sondare, della vita tra pari: uno scontro forte di posizioni. Evidentemente gli schieramenti internazionali delle potenze (Usa e Europa con Ucraina e Israele) aveva creato cortocircuiti nei bambini producendo due posizioni contrapposte.

Intervenire su questo conflitto era difficilissimo. Ci ho provato, ma da insegnanti si capisce subito quando si apre il dibattito su un tema e la freddezza degli interventi attesta due registri, quello ufficiale e quello intimo, il primo conformista verso il docente, il secondo sincero e nascosto. Per sbloccare la situazione serviva un fatto nuovo, che si è presto verificato con l’arrivo a Bologna da Gaza di alcuni bambini palestinesi feriti che si dovevano operare all’ospedale Rizzoli. Questo episodio ci ha dato l’occasione di riaprire il discorso spostandoci leggermente dalla contrapposizione, perché una maestra ci ha chiesto se volevamo preparare disegni da mandare a questi bambini. Abbiamo aperto il dibattito, la maggioranza non aveva dubbi, ma il bambino ucraino questa volta non ci stava. Dopo l’irrigidimento di posizioni raccontato nel “quaderno dei pensieri” faceva valere il suo risentimento. In questo caso però,  in quanto regolatore della discussione, avevo degli argomenti forti da usare che potevano sbloccare la situazione. Quelli ricoverati al Rizzoli erano bambini, vittime di bombardamenti, senza nessuna colpa. Senza colpe erano anche i bambini che non potevano più vivere in Ucraina per sfuggire anche loro alle bombe. L’argomentazione era stringente per il bambino ucraino, perché mostrava che quei bambini palestinesi avevano il suo viso, ed era stringente anche per gli altri, perché ricordava loro che quel compagno, pienamente integrato in classe da quasi due anni, in realtà rimaneva un profugo di una guerra, in fuga dalle bombe (ormai forse non ci pensavano più). Il bambino ucraino allora ha detto che ci avrebbe pensato su. Il giorno dopo, in classe, ha affermato che ci aveva pensato ed era d’accordo anche lui. Così ci siamo messi a preparare insieme i disegni per i bambini palestinesi ricoverati in ospedale. Le guerre c’erano ancora, ma noi avevamo raggiunto un fragile equilibrio momentaneo, un piccolo momento di soddisfazione nel difficile lavoro di riorganizzazione delle spinte emotive che arrivano all'interno del gruppo classe dalla società e dai contesti familiari dei bambini. L’unica strada rimaneva quella di parlare, perché i bambini hanno necessità di far uscire i loro pensieri senza temere che non siano accolti, senza tabù, perché se escono “ci si può lavorare”. È necessario lavorarci giorno per giorno, il piccolo risultato che emerge oggi, probabilmente domani è superato e occorre ricominciare da capo, da ieri.

 

Senza fine

 

Finisce anche la quinta classe senza che le due guerre accennino a chiudersi. Salutati i ragazzi e le ragazze pronti a passare nella nuova scuola, è tempo di smontare i cartelloni e i lavori sedimentati sulle pareti e negli armadi negli ultimi anni. Sotto un cartellone emergono, temporaneamente dimenticate tra i mille disegni liberi appesi, due tracce di questo percorso: un disegno di Putin morto e sepolto e una bandiera della Palestina. Espressioni di sentimenti nati nella storia e entrati nella classe, discussi, catalizzatori di conflitti ma anche di crescita sia dei ragazzi e delle ragazze, nonché di chi come noi maestre provava ad allestire tra loro un confronto. Di fronte alla storica sconfitta delle diplomazie internazionali che hanno trascinato nel loro fallimento anche quella fiducia nel diritto che ancora attribuivamo all’Organizzazione delle Nazioni Unite, il percorso compiuto nella classe mi pare almeno un tentativo dignitoso, in basso, di non cedere alla sola logica dei rapporti di forza e degli interessi identitari. Un pro memoria per chi in futuro troverà ancora la forza di lottare, dentro e fuori dalla scuola, per un mondo giusto e senza guerre.