UN PROF ERRANTE DI MATEMATICA

 di Sandro Ciarlariello 

Da bambino ero un avido lettore di Topolino e cercavo ogni settimana di raccattare le 2800 lire necessarie per acquistarlo. Come a molte persone della mia generazione, il lavoro di autorə e fumettistə degli anni ‘90 ha lasciato un patrimonio di grande immaginazione che oggi con nostalgia ricordiamo. Tra le tantissime storie che mi sono rimaste appiccicate addosso come la crema solare d’estate di sicuro la storia di “Paperino cavalier…errante” non riesco a dimenticarla (su Topolino n. 2111 del 14 maggio 1996, avevo 9 anni).

 

Nella storia, zio Paperonius è l’amministratore economico spilorcio del regno; suo nipote Paperino vorrebbe avere maggiore considerazione ma lo zio lo considera un imbranato. Il re, stanco dell’austerità dello zio, decide unilateralmente di mandare Paperonius in pensione ma l’unico modo per farlo è che Paperino diventi un cavaliere “errante”: avrebbe dovuto girovagare nel regno a risolvere i problemi delle persone più deboli. Invece, prevedibilmente, Paperino combinerà solo guai nell’esercizio della sua cavalleria senza riuscire a prendere il posto dello zio. Alla fine però tutto si risolverà grazie al doppio significato di “errante”: siccome Paperino aveva sbagliato ogni impresa allora aveva errato, quindi è tecnicamente un cavaliere “errante” e può diventare il nuovo amministratore economico del regno, mettendo fine all’avarizia esagerata dello zio. Ricordo ancora l’entusiasmo che provai quando lessi questa storia perché una parola poteva avere più significati, cosa che non avevo ancora ben compreso a quell’età.

 

Così, continuando a custodire negli anni questa storia dentro di me, mi sono trovato a insegnare matematica alla scuola secondaria di secondo grado. Precario, ovviamente. Per definizione un docente errante. Anche nel doppio significato di Paperino perché, oltre a cambiare scuola ogni anno, lavorando senza un briciolo di formazione non potevo far altro che sbagliare e, di conseguenza, imparare da ciò che sbagliavo. Fin da subito mi sono reso conto che ciò che chiedevo alle mie classi era esattamente l’opposto di ciò che accadeva alla mia esperienza di docente errante. Pian piano miglioravo proprio perché sbagliavo; lə miə studenti non avevano questa possibilità perché, nella scuola secondaria di secondo grado attuale, gli errori sono solo trivelle che spingono sempre più giù negli abissi dei voti negativi.

 

Come riuscire a condividere con loro la mia esperienza errante? Nei primissimi anni in classe mi sono sempre sentito in catene: non facevo altro che riprodurre schemi già visti, già funzionanti; pensai con amarezza di proporre gli stessi schemi che subivo io quando ero studente. Quest’ultimo pensiero mi fece dubitare fortemente del mio lavoro. Ma da docente errante ogni anno la scuola cambiava e quello che erravo un anno in una classe lo usavo poi l’anno dopo in un altro luogo. Docente errante anche nello spazio-tempo dell’istruzione pubblica.

 

Un soleggiato pomeriggio di dicembre decisi che il giorno dopo sarei andato in classe come Paperino: sicuramente molto goffo, probabilmente errante, ma con lo spirito ingenuo e scanzonato dell’aspirante cavaliere che combatte i draghi e gli orchi dello status quo. Entrai nella terza scientifico e dissi che non avremmo più fatto verifiche ma che avremmo cambiato modo di fare matematica. La classe era perplessa, ma di fronte a non fare più le verifiche l’entusiasmo fu rapido (e questo, ho capito in seguito, è parte del problema).

 

Organizzammo insieme il lavoro come segue: ogni studente avrebbe fatto un paio di esercizi individualmente, prendendosi tutto il tempo dell’ora di lezione a patto di spiegare in dettaglio tutti i passaggi matematici sul proprio foglio; nell’ora successiva lə studenti si sarebbero scambiatə i fogli per procedere a una correzione reciproca mentre svolgevo l’esercizio corretto alla lavagna; dopo aver fatto ciò avremmo formato delle coppie composte da chi aveva fatto bene l’esercizio e chi l’aveva fatto male, oppure da due studenti che avevano fatto errori simili, a seconda delle situazioni. Nella terza ora lə studenti avrebbero fatto un paio di esercizi in coppia, aiutandosi reciprocamente, a seconda delle proprie difficoltà nell’affrontare quel tipo di esercizi. Nella quarta ora avremmo analizzato i dubbi emersi nelle tre ore precedenti e provato a fare un passo avanti nella teoria. Quindi avremmo ricominciato il giro nella settimana successiva. L’idea che avevo proposto alla classe prevedeva tre-quattro giri, un ciclo di un mese circa (a seconda di quante lezioni più teoriche servivano per quell’argomento) per poi procedere a una valutazione del lavoro svolto.

 

Prima di procedere al primo giro di questa nuova modalità avevo insistito molto sul concetto di errore e di progresso nell’apprendimento. Avevo detto alla classe di cercare in tutti i modi di sbagliare serenamente perché non stavamo svolgendo una verifica: solo rendendo visibili gli errori avremmo potuto poi fare le coppie per bene e soprattutto io avrei potuto valutare i loro progressi e aiutarli nella maniera più specifica possibile. Alla fine del ciclo di un mese io avrei raccolto tutti i loro lavori individuali e avrei scritto per ciascunə studente un feedback, un giudizio personalizzato sul lavoro svolto e sui progressi, oltre che consigli e raccomandazioni.

 

Immaginavo che gli errori fatti potessero essere una grande occasione, portoni che si spalancavano verso nuove opportunità di apprendimento. Sognavo, di sicuro ingenuamente, che così l’errore sarebbe stato visto finalmente come aspetto positivo; immaginavo che disaccoppiando l’errore fatto dal togliere punti durante una verifica ci sarebbe stato più coraggio, come il cavaliere Paperino che errava errando. Se tuttə possono sbagliare serenamente, allora può nascere una condivisione degli errori: tante persone possono fare errori simili, altre possono fare errori impensabili, altre ancora avrebbero potuto fare quell’errore ma per fortuna l’hanno fatto altrə e la condivisione mi aiuta. Rendere l’errare collettivo per andare insieme su altre strade di apprendimento che altrimenti, da solə, non necessariamente si avrebbe il coraggio di battere.

 

Mancava solo un dettaglio, che però si rivelò cruciale nelle mie riflessioni nei mesi successivi: come avrei fatto per i voti? La domanda fu posta in modo ostinato già dallə studenti il giorno in cui decidemmo di procedere nel nuovo modo e io, errando di nuovo, mi presi del tempo dicendo che ci avremmo pensato poi. La mia idea, vaga e che non esposi in quel momento, era la seguente: se devo valutare positivamente gli errori come occasioni di apprendimento, allora non posso mettere insufficienze a chi sbaglia. Devo dare fiducia, devo ostinatamente credere che chi oggi sbaglia farà meglio domani, in parte o in tutto non importa. Era il terzo anno che erravo nella scuola pubblica e i due anni precedenti erano stati segnati dalla pandemia di Covid-19, mi sembrava il momento giusto per osare e, allo stesso tempo per il desiderio di ritorno alla normalità che si aggirava tra le aule scolastiche, anche il momento peggiore per farlo. Alla fine mi decisi: chi si rifiuta di svolgere il lavoro non può prendere un voto sufficiente, mi sembrava ovvio; chi invece lavora, anche se sbaglia tutto, ottiene la sufficienza. Nella mia idea di valutazione il resto dei voti sarebbe stata una certificazione di un livello di apprendimento.

Con una tabella che avevo preparato tentai di comunicare a ogni studente dove si trovava, con un voto dal 6 al 10, fermo restando che la cosa più importante era il feedback personalizzato e non il voto che la burocrazia ci obbligava a inserire. Preparavo ciò pensando che con il lavoro costante, gli esercizi a coppia e la mia costante supervisione in classe, saremmo riusciti a combinare qualcosa e soprattutto pensando che lə studenti avrebbero apprezzato il mio feedback più del voto. Sognare non costa nulla.

 

Siccome il protagonista del nostro ciclo di lavoro doveva essere l’errare, decidemmo insieme che durante i lavori in classe ogni studente poteva usare gli appunti, il quaderno con gli esercizi già svolti, il libro, la calcolatrice. Insomma, tutto. Forse a qualche collega può sembrare assurda questa scelta: come fai a valutare qualcosa se possono vedere sempre dal libro? Ma in realtà in quel modo io volevo fare qualcosa che noi docenti di matematica non vediamo mai, ovvero volevo vedere lə studenti mentre studiavano, mentre sbagliavano e imparavano dagli errori. E poiché io erravo per la classe allora potevo intervenire in tempo reale, sia come semplice osservatore sia come pronto soccorso. Quel primo giro fu bello, interessante, difficile. Bello perché si respirava davvero un’altra aria in classe, il clima era davvero positivo, soprattutto per coloro che facevano sempre fatica a stare al passo e che non si fecero sfuggire l’occasione; chi andava già bene era più da domare ma poi nel lavoro di coppia si metteva a disposizione con grande spessore umano, quasi inaspettato a volte.

 

Tuttavia emersero spesso dei problemi di fiducia reciproca. Mi sono ritrovato qualche volta, durante i lavori individuali, a placcare studenti che usavano ChatGPT o, addirittura, l’invio di esercizi tramite Whatsapp a compagnə della stessa classe. Mi sembrò di aver fallito tutto: se hanno paura di sbagliare anche quando possono sbagliare, come si fa? Valutai, a caldo, anche il terribile ritiro degli smartphone durante i lavori individuali. Ma riflettendoci la ritenni una scelta controproducente rispetto agli obiettivi collettivi dell’attività: affermare un principio forte di autorità durante un lavoro il cui centro era l’errore avrebbe forse vanificato tutto. E allora decisi di rimodulare le richieste di chi scoprivo a copiare con domande aggiuntive del tipo: spiega cosa dice ChatGPT, oppure, invece di copiare dalla foto di Whatsapp, spiega i passaggi che lə tuə compagnə non ha spiegato. Non sempre ha avuto successo questa strategia, ma il tentativo andava fatto.

 

Al momento della fine del ciclo, ogni studente riceveva il proprio feedback personalizzato scritto da me. Questo fu il momento più sorprendente: non immaginavo che anche lə studenti che mi avevano fatto penare di più fossero colpiti dal fatto che avevo dedicato del tempo a scrivere qualcosa esclusivamente per loro. Chi soffriva cronicamente in matematica era chi apprezzava di più. Con il tempo oggi ho imparato meglio a scrivere questi feedback e, lo ammetto, la reputo la parte più divertente del mio lavoro.

 

Però restava il voto, il macigno da cui neanche io potevo liberarmi. Non è facile accordare un lavoro che si basa sull’errare a una scala numerica di valutazione fatta appositamente per selezionare chi sbaglia di meno. Avevo cercato di introdurre indicatori diversi rispetto al più asciutto “ha svolto tutto correttamente” (contro, come dicevo, il senso del nostro lavoro collettivo in classe), ma purtroppo dovetti constatare che tu puoi anche lavorare un mese nel modo più democratico possibile (almeno per una materia come matematica al liceo scientifico) ma alla fine il voto per lə nostrə studenti è parte delle ossa, si impregna nel sangue, finisce nelle cellule e ha un solo significato: merito, selezione, competizione. “Meritavo di più” (mai di meno, eh), “Perché a me 8 e a ləi 9?” (mai il contrario), “Prof, ma la media?” (torna la burocrazia). Fu un momento di grande frustrazione in quel primo giro e, spesso, lo è anche oggi che continuo a lavorare in questo modo.

 

Tuttavia ho sempre visto positivamente il manifestarsi di queste discussioni: in quanto docente errante, consapevole di errare, mi sarei preoccupato se chi aveva sperimentato questa nuova modalità avesse accettato passivamente le mie valutazioni, senza una riflessione (anche se magari auspicavo riflessioni di diverso tenore, ma meglio di niente). Se cercavo di scardinare proprio quelle logiche che la classe aveva interiorizzato negli anni precedenti, allora era necessario trovare uno spazio di discussione libero e safe. Purtroppo se sei l’unico del consiglio di classe che prova a scardinare allora l’impresa è improba e immedesimarsi con Paperino che tenta di diventare cavaliere è facilissimo. Discutemmo, anche aspramente, per mesi su questo modo di lavorare. Tirammo fuori molte cose che erano sepolte sotto uno strato di “si è sempre fatto così” e abbiamo sbagliato sia io sia loro, oh sì, abbiamo sbagliato. Molto spesso alcunə studenti mollavano, decidevano che non volevano imparare e mi dicevano “Prof noi studiamo solo se sappiamo di rischiare di prendere veramente 4”. All’inizio fui molto deluso da queste affermazioni; ma poi, riflettendoci mentre passeggiavo per il centro di Bologna con un po’ di musica negli auricolari, pensai che fosse un bene per tuttə che certe cose fossero dette, in classe, ad alta voce.

 

Poi arrivò giugno, l’anno finì. Arrivò la disoccupazione e ripresi il mio giro da docente errante. Tirando le somme di com’era andata, decisi che avrei sicuramente riproposto la metodologia, magari aggiustando qualcosina, imparando proprio dai miei errori. E così sto facendo ancora, anche quest’anno.

 

La mia testa è piena di dubbi, mi sembra di avere solo una piccola certezza: dovremmo smetterla di vedere la matematica come una disciplina rigida da cui eliminare gli errori. Piuttosto, la matematica dovrebbe essere vista come un momento in cui abbracciare gli errori proprio per ragionare meglio. C’è bisogno che le persone abbiano uno spazio e un tempo della propria vita in cui possono sbagliare serenamente perché solo così immaginano di aprire finestre su nuovi orizzonti al momento ancora ignoti.

 

Non va trascurato, inoltre, che purtroppo noi docenti di matematica abbiamo un problema irrisolto con noi stessə: siccome a noi è sempre piaciuta la materia crediamo di dover per forza condividere questo sentimento e siamo sinceramente (e ingenuamente) convinti che studiare matematica sia importante e che debbano esserci risultati simili a quelli che hanno portato proprio noi a insegnare matematica. Ovvero la nostra posizione qui e ora automaticamente assolve il sistema educativo che ha lasciato indietro moltə dellə nostrə compagnə del passato.

 

Questo è un bias che ci portiamo dietro e che facciamo spesso fatica a riconoscere - come ho raccontato io stesso all’inizio. Quindi carichiamo chi studia la materia con teoria ed esercizi semplicemente perché a noi docenti di matematica piace la matematica e non immaginiamo neanche per un attimo che possa non piacere. Pensiamo che possa bastare renderla giocosa, pensiamo che possa bastare semplificare ma non ci rendiamo conto che qualunque cosa facciamo continuiamo ad avere una visione individualistica dell’apprendimento della matematica, una visione che al suo interno contiene la demonizzazione dell’errore, il quale, secondo il vigente status quo, va estirpato e mai accolto. E questo poi ci porta spesso a concludere che “non tutti possono prendere 10 in matematica”, oppure che “c’è chi è più portatə di altrə”. Ma questo modo di vedere le cose, oltre che intriso di ideologia meritocratica, ha anche un carattere meramente “trasmissivo”, come se chi insegna fosse solo dispensatore di teoremi e di correzioni implacabili.

 

Oggi vediamo la matematica solo come tecnicismo: immersə nella retorica STEM-neoliberista, ci sentiamo dire solo che la matematica è la lingua della tecnologia e dell’ingegneria, quindi la chiave per accedere al futuro mondo del lavoro. E così a scuola moltə studenti vedono la matematica solo come il male necessario che permette di avere uno status da persone adulte.

 

Test, quiz, selezioni, concorsi basati sulla logica e la matematica (e già si vedono i prodomi di ciò nei test INVALSI) vanno in questa direzione e rendono, purtroppo, la matematica uno strumento di discriminazione, uno strumento che già in classe fa crescere le disuguaglianze sociali a lungo termine.

 

Che fare? Dovremmo recuperare la vocazione democratica dell’educazione per declinarla anche alla matematica della secondaria di secondo grado, senza trattare questa disciplina solo come un tecnicismo oscuro, come spesso purtroppo accade. Usare la matematica per creare pratiche di liberazione sociale attraverso l’errore: per liberarsi da pregiudizi e realtà già confezionate da altrə c’è bisogno di avventurarsi nell’errore come pratica quotidiana. Quale mezzo migliore della matematica per fare ciò?

La matematica non dovrebbe punire ma piuttosto esaltare l’errare. Con il duplice significato che ci insegna la storia di Paperino: sbagliare per andare ovunque e immaginare nuove strade. Ma questo si può fare solo collettivamente, come classe, creando percorsi di condivisione degli errori fatti.

 

Con tutte queste riflessioni nella testa penso ai miei errori, soprattutto a tutti quelli che ho fatto da docente. E penso di aver avuto più occasioni di sbagliare da docente che da studente e non posso fare a meno di dolermi perché, forse, sarebbe stato più giusto il contrario. Ormai continuare a errare la vedo come prerogativa imprescindibile del mio lavoro. Pensare che ogni giorno possa essere un’occasione per errare insieme alle proprie classi, magari - auspicabilmente - insieme a docenti e studenti . Provare a pensare, insieme, che la matematica a scuola non deve essere più un problema educativo individuale e rigido che si limita a premiare chi fa bene e punire chi sbaglia, con l’unico obiettivo di selezionare e, soprattutto, adattare le persone a uno standard deciso dall’alto e che guarda verso l’alto. La matematica può essere invece parte di un’occasione educativa collettiva, di democrazia, di reciproca cura e di rispetto dei tempi e dei bisogni di ciascunə.

 

Magari da prof errante si deve fare proprio come ha fatto Paperino: sognando un mondo migliore, Paperino ha errato in tutti i sensi e, alla fine, è riuscito a cambiare le cose.

 

Insomma, smettere di errare sarebbe forse l’unico errore davvero imperdonabile per noi docenti.