FU: VOCE DEL VERBO FARE
dialogo a distanza tra una professoressa e un maestro
di Silvia Di Fresco e Enrico Roversi
Quando suona la campanella vi offre questo esperimento di dialogo a puntate tra una insegnante di scuola secondaria di secondo grado e un maestro di scuola primaria. L'alfa e l'omega dell'obbligo scolastico. Due mondi apparentemente distanti.
TERZA PUNTATA
di Silvia Di Fresco
04/04/2016
Gentilissimo collega,
lei ha ragione e, salendo sul cordiale ponte che mi ha lanciato, le dico che ha centrato esattamente il punto: il potere e i verbi che lo strutturano. La penna rossa forse ne fa parte, ma in realtà è solo un colore e, nel momento in cui noi insegnanti correggiamo, non dovremmo dimenticarlo né dovremmo farlo dimenticare agli alunni. Il mio scandalizzarmi di fronte a certi vuoti di sapere, infatti, era ben lungi dall’essere un attacco agli studenti tout court o agli insegnanti di scuola primaria, bensì era un grido di disperazione finalizzato al chiedersi – senza cliché e senza tabù – come mai l’ignoranza in certi ordini di scuola è così diffusa. Sì perché deve sapere, esimio, che io insegno in quelle scuole chiamate di frontiera e gli alunni che mi trovo davanti sono gli stessi, aggiornati al XXI secolo, che il professor Grammaticus incontrava sul suo treno. Il fatto quindi di accogliere proprio loro, mi pone ogni giorno molteplici domande che si condensano in una unica, enorme: quale vita li aspetta? Perché sia chiaro, panta rei è vero, ma le cose e il mondo, per quanto contraddittorie, non sono affatto uguali per tutti. E per loro lo sono ancora meno. Molti non hanno internet a casa (e noi a far corsi di formazione sulla didattica on-line), altri sono in casa famiglia (e noi a organizzare colloqui a cui si presentano solo i genitori di chi non ha problemi), altri ancora vivono in contesti talmente disagiati che la scuola è il minore dei problemi (e noi a dar note e a sospendere). Allora le domando: noi che percorriamo con questi ragazzi un pezzo di strada, cosa dobbiamo fare? Qual è il nostro ruolo?
Il ministero risponde in modo molto semplice: classificateli e date loro le competenze necessarie. Hanno problemi? sono BES, è evidente, fategli un programma didattico differenziato e promuoveteli ma, attenti, devono poi rispondere correttamente ai test standard cui il sistema nazionale di valutazione li sottopone, altrimenti significa che non gli avete fornito le competenze necessarie alla vita. Non solo la cattedra dunque, bensì il camice. E qui torniamo a fu voce del verbo fare: se noi per primi confondiamo il fare con l’essere e non pretendiamo di insegnare la differenza, quale futuro può attenderli? Identificare se stessi con quanto si fa, significa piegarsi alla logica neoliberista dell’utile, significa condannarli a sentirsi solo ciò che fanno e non a essere ciò che sono. «L’utilitarismo viene presentato come la sola ideologia che oggi sia in grado di affrontare lo “stato d’emergenza” prodotto dalla crisi. Tale ideologia pretende di costruire un mondo trasparente, in cui possiamo sempre giudicare ciascun essere umano in funzione di criteri chiari, precisi e univoci: i criteri quantitativi.»1 Infatti a 14 anni, quando li incontro io nei Professionali o in certi Istituti Tecnici di provincia, la maggior parte ha addosso da tempo un’etichetta: inadeguato a compiere studi di livello superiore. Tradotto dalla società: deve fare solo lavori manuali, inutile perdere tempo con il pensiero. Tradotto dall’alunno: privo di speranza. «L’esecuzione di una cosa sempre uguale e sempre fatta nello stesso modo ha per molti spiriti una prospettiva terrificante. Io non potrei mai fare assolutamente la stessa cosa ogni giorno da mattina a sera; ma per molti spiriti, oserei dire per la maggioranza di essi, il ripetere sempre la stessa operazione non è affatto motivo di raccapriccio. La verità è che per certi tipi di cervelli il pensare è proprio una pena»2 A pronunciare questa frase, all’inizio del secolo scorso, fu non a caso Henry Ford; tuttavia ancora oggi, quante volte si ripete agli alunni (o ai loro genitori) “non è adatto allo studio”? E la cosa gravissima è che spesso, accumulando vuoti, ciò diventa per molti drammaticamente vero. Chi è allora che può cambiare le cose?
Certo non solo noi e con tutta probabilità ha ragione quando dice che ci diamo troppa importanza, che dobbiamo essere coltivatori d’attese, che è necessario abdicare; è pur vero però che, attendendo, molti degli studenti che vedo abbandona e se un tempo riuscivo a godere di coloro che si iscrivevano all’Università o intraprendevano, dopo il diploma, un lavoro soddisfacente (la vita è la tua, non mia), adesso invece penso a chi si è perso. Mi dirà che l’obiettivo di noi docenti non è il nostro piacere, certo, ma senza di esso non riusciremmo a trasmettere la nostra passione, non riusciremmo a essere veicolo di desiderio, riusciremmo solo a fare o, tuttalpiù, a far fare. E purtroppo credo che uno dei rischi più gradi del nostro mestiere in questi tempi sia proprio questo: limitarsi a eseguire burocrazia digitale (e non) per raccontare a noi stessi che serviamo a qualcosa. Il sistema scuola ci ha fatto perdere di vista le priorità dell’educazione e del sapere, l’articolo 3 della nostra Costituzione. In Italia uno studente su tre non finisce le superiori e non a caso «i numeri cambiano molto tra i vari indirizzi scolastici. Negli istituti professionali quattro studenti su dieci lasciano i banchi prima del quinto anno, a fronte di circa due su dieci dei licei classico e scientifico. Anche gli indirizzi artistici hanno un tasso di abbandono molto alto: il 35 per cento». 3 Eppure, persino negli articoli dove si sottolineano dati così tragici, l’accento è sempre posto sull’utile. «Il fatto che 167mila ragazzi abbandonano la scuola prima del termine del quinquennio vanifica gli sforzi di 12.800 professori. E quindi è come se facesse sprecare 503 milioni di euro all’anno per la fine di ogni ciclo della scuola superiore.»4 Così facendo però la nostra società diventa sempre più dura: se servi bene, se no sei fuori, ma fuori sei un danno economico, quindi arrangiati, anche perché il fatto che tu stia fuori, nella competizione individualista, permette a un altro di stare dentro, pertanto chi ha interesse a tentare di risolvere tale dicotomia? La politica?
Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò e dico anch’io.
Il potere e i verbi avevamo detto. Il potere di conservare il sapere; il potere di confondere fare ed essere; il potere di far credere che certe conoscenze sono desuete perché inutili; il potere di convincerci che l’utile è migliore della passione e del desiderio. Nella nostra scuola tutto ciò è palpabile, lo respiriamo noi e lo respirano i nostri studenti; il punto è un altro, caro collega: come si va controcorrente?
Ringraziandola per l’attenzione e facendole notare che a parlar con lei le domande si moltiplicano, le porgo i miei ossequi.
1 M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 41
2 Henry Ford, La mia vita e la mia opera, Milano, La Salamandra
3 J. Ottaviani, «In Italia uno studente su tre non finisce le scuole superiori» http://www.internazionale.it/opinione/jacopo-ottaviani/2015/02/20/scuola-studenti-italia-abbandono
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