FU: VOCE DEL VERBO FARE
dialogo a distanza tra una professoressa e un maestro
di Silvia Di Fresco e Enrico Roversi
Quando suona la campanella vi offre questo esperimento di dialogo a puntate tra una insegnante di scuola secondaria di secondo grado e un maestro di scuola primaria. L'alfa e l'omega dell'obbligo scolastico. Due mondi apparentemente distanti.
SECONDA PUNTATA
di Enrico Roversi
27/03/2016
Gent.ssima collega, il problema non è ballare il can can sulla cattedra (ché l'idea non è poi da buttare) ma è la cattedra in se stessa. Spesso nella scuola elementare le aule sono così piccole che non bastano a contenere le energie vitali e il bisogno di movimento dei bambini. La cattedra occupa spazio, molto spazio. Sia quello fisico sia quello del potere. Occorrerebbe eliminarla dalle aule della primaria per liberare posto e per liberare gli insegnanti dall'idea che in sé questo arredo scolastico sia una specie di totem protettivo che ripara e richiama visivamente la gerarchia. Oltre agli arredi occorrerebbe rimettere in discussione il contenitore. Le aule scolastiche fanno sembrare le scuole simili a prigioni con celle più o meno ben arredate e spesso sovraffollate. Servirebbe ripensare lo spazio fisico come meno funzionale al potere e più vicino alla libertà. Perché parlo di potere? Perché sta correggendo delle verifiche sui verbi e i verbi hanno sempre a che fare col potere. Quel potere fatto di attori economici e pseudo politici nel quale, piaccia o non piaccia, siamo immersi e che cerca di piegare la scuola ai propri fini ed interessi. Pensi a concetti come “debito” o “credito” formativo e mi dica se non le sembra per un momento di essere allo sportello di una banca. Lei collega parla anche di basi che mancano, di confusione tra essere e fare. Ma per molti bambini non c'è differenza tra essere e fare. Non esiste un prima ed un dopo ma un adesso. Sono gli adulti che la fanno, spesso con risultati discutibili. Non trova che i nostri alunni, pur nella loro confusione ed approssimazione, a volte siano più avanti delle nostre grammatiche? Mi ha fatto riemergere alla memoria una storiella di Gianni Rodari che forse fa al caso nostro, così per cominciare a discutere e cercare di dialogare e capirci. Sembra un racconto datato ma converrà con me che è di estrema attualità.
Essere e avere
Il professor Grammaticus, viaggiando in treno, ascoltava la conversazione dei suoi compagni di scompartimento. Erano operai meridionali, emigrati all'estero in cerca di lavoro: erano tornati in Italia per le elezioni, poi avevano ripreso la strada del loro esilio. - Io ho andato in Germania nel 1958, - diceva uno di loro. - Io ho andato prima in Belgio, nelle miniere di carbone. Ma era una vita troppo dura. Per un poco il professor Grammaticus li stette ad ascoltare in silenzio. A guardarlo bene, però, pareva una pentola in ebollizione. Finalmente il coperchio saltò, e il professor Grammaticus esclamò, guardando severamente i suoi compagni: - Ho andato! Ho andato! Ecco di nuovo il benedetto vizio di tanti italiani del Sud di usare il verbo avere al posto del verbo essere. Non vi hanno insegnato a scuola che si dice: "sono andato"? Gli emigranti tacquero, pieni di rispetto per quel signore tanto perbene, con i capelli bianchi che gli uscivano di sotto il cappello nero. - Il verbo andare, - continuò il professor Grammaticus, - è un verbo intransitivo, e come tale vuole l'ausiliare essere. Gli emigranti sospirarono. Poi uno di loro tossì per farsi coraggio e disse: - Sarà come lei dice, signore. Lei deve aver studiato molto. Io ho fatto la seconda elementare, ma già allora dovevo guardare più alle pecore che ai libri. Il verbo andare sarà anche quella cosa che dice lei. - Un verbo intransitivo. - Ecco, sarà un verbo intransitivo, una cosa importantissima, non discuto. Ma a me sembra un verbo triste, molto triste. Andare a cercar lavoro in casa d'altri... Lasciare la famiglia, i bambini. Il professor Grammaticus cominciò a balbettare. - Certo... Veramente... Insomma, però... Comunque si dice sono andato, non ho andato. Ci vuole il verbo "essere": io sono, tu sei, egli è... Eh, - disse l'emigrante, sorridendo con gentilezza, - io sono, noi siamo!... Lo sa dove siamo noi, con tutto il verbo essere e con tutto il cuore? Siamo sempre al paese, anche se abbiamo andato in Germania e in Francia. Siamo sempre là, è là che vorremmo restare, e avere belle fabbriche per lavorare, e belle case per abitare. E guardava il professor Grammaticus con i suoi occhi buoni e puliti. E il professor Grammaticus aveva una gran voglia di darsi dei pugni in testa. E intanto borbottava tra sé: - Stupido! Stupido che non sono altro. Vado a cercare gli errori nei verbi... Ma gli errori più grossi sono nelle cose! [Gianni Rodari, Il libro degli errori)]
Panta rei, tutto scorre e noi apparteniamo ad un tempo di transizione dove tutto è rimesso in discussione, dove quello che nel campo educativo sembrava assodato traballa e si perde nella nebbia dove sbiadiscono i contorni certi e rassicuranti. E' vero, non c'è più nulla di scontato, nemmeno certe basi. Servirebbe gettarne altre per una nuova epistemologia dove i verbi abbiano a che fare col mondo oltre che con le grammatiche. Lei critica e nutre riserve sull'operato di noi insegnanti di scuola primaria. Io sono più radicale. Penso che la scuola primaria andrebbe ripensata da capo a piedi. Sotto l'ombra di belle parole e programmi didattici lucidati a specchio la nostra scuola primaria è ancora un luogo oppressivo e repressivo. Come può esserci conoscenza dove c'è oppressione? L'oppressione uccide il desiderio e imparare senza nutrire desideri è impossibile. La conoscenza del mondo senza la spinta dei desideri vitali è una conoscenza morta che produce aridità di spirito e di pensiero. Poi in ballo c'è anche il nostro di potere. Noi insegnanti, spesso senza accorgercene, nutriamo delle aspettative legate al nostro egocentrismo. Sono quelle aspettative non corrisposte che ci fanno stare male. Ma come, ho fatto così tanto. E' questo il modo di ripagarmi? Dovremmo essere invece dei coltivatori di attese. Non è facile perché vuol dire rinunciare al nostro nascosto ed eterno desiderio di potere sull'altro. Dovremmo accontentarci di trasmettere la nostra passione ed il nostro affetto, il ci tengo a te sappilo e fai come vuoi, la vita è tua non mia. Quanti dovremmo che dovremmo affrontare. Senza dimenticare che anche noi insegnanti siamo sotto il tallone di ferro del potere, immersi in una precisa realtà storica e nel suo contesto. Non possiamo ritenerci attori liberi ma, semmai, comparse che cercano di ritagliarsi spazi di libertà e di consapevolezza. Non ho la pretesa di concludere qui il discorso ma di lanciare un ponte per dialogare, cosa che noi insegnanti, specie di ordini diversi, non facciamo o facciamo male. Rimango a sua disposizione e cordialmente le faccio un saluto così cordiale che nel farlo ci sono anche dentro.
[CONTINUA LA PROSSIMA SETTIMANA]
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