CONFESSIONI DI UN MAESTRO

di Enrico Roversi

 

 

Nell'antichità era consuetudine scrivere sulle pelli per poi cancellare il testo e riscriverne un altro. Le parole venivano grattate vie e la pelle veniva resa nuovamente morbida con l'aiuto dell'avorio e pronta ad un nuovo utilizzo. Lo scritto era perduto per sempre. All'epoca non potevano sapere che nel substrato della pelle, invisibile all'occhio, rimaneva traccia del vecchio testo che grazie alle moderne tecnologie oggi è possibile recuperare. Voglio pensare che questo sia vero anche per la scuola, che le esperienze più belle e vitali della storia dell'educazione anche se raschiate via siano ancora leggibili dietro l'oscenità del presente. Ho bisogno di pensare che il mio lavoro abbia ancora un senso, che possa essere qualcosa di diverso dall'allevare polli di batteria.

 

Fu una mattina già calda d'aprile che capii che potevo davvero diventare un insegnante. Avevo accettato una supplenza annuale sul sostegno in una scuola dell'infanzia. La bambina che dovevo seguire manifestava disturbi nella sfera emotiva e del comportamento. Avevamo appena lavorato in un piccolo gruppo costruendo insieme un plastico. Era stato faticoso ma davvero divertente e ora stavamo riposando in un momento di attività libere. Ester si alzò da terra dove stava giocando con le costruzioni e si venne a sedere sulle mie gambe, mi guardò in faccia e mi chiese: “Ma tu maestro, che mestiere fai?”. Pensai fosse bellissimo il fatto che questa bambina non mi percepisse e non mi vivesse come la persona che riveste un ruolo, quello dell'insegnante. Non so cosa pensasse del fatto che io fossi lì insieme a loro, ma di sicuro fuori dalla scuola dovevo pur fare un qualche mestiere?

 

Quella domanda non mi ha mai abbandonato.

Io che lavoro faccio?

 

Un insegnante fa lezione, spiega. Spiegare, dal latino explicare che ha in sé il verbo plicare cioè piegare. Il suo compito è quello di eliminare le pieghe nelle quali ha dimora l'oscurità del non conosciuto per portare la luce del sapere. Ma io sono nato nella bassa bolognese e amo la nebbia, il perdersi dei contorni, il non vedere al di là, l'immaginazione che si deve usare per ricostruire le forme o costruirne di nuove e, in fondo, mi dispiace quando il sole la dirada. Dopo aver spiegato un insegnante arriva alle conclusioni. Amo i film con il finale aperto. Cosa succederà dopo? Che ne sarà dei protagonisti? Ma se… Un insegnante fa domande e si aspetta risposte. Perché provo una gioia immensa quando un mio alunno rilancia? “Dà sempre una bella risposta chi pone una domanda ancor più bella [E. E. Cummings] e il mio stomaco fa a pugni con la mia testa tutte le volte che interrogo. Un insegnante si aspetta dai suoi studenti che si ricordino nozioni e concetti. Io invece sento suonare con forza queste parole di Lichtenberg: “ Mi piacerebbe che ogni cosa mi diventasse estranea, per vedere di nuovo, per udire di nuovo, per sentire di nuovo. Oggi si cerca di diffondere la conoscenza ovunque; forse, tra qualche secolo, vi saranno delle università finalizzate al ripristino della vecchia ignoranza”. Un insegnante valuta. Oggi se ne parla ossessivamente, sembra diventato il fine principale della scuola. Spiegatemi come può riuscire una soggettività (l'insegnante) a valutare “oggettivamente” un'altra soggettività (lo studente)? Quando nacque la psicanalisi fu evidente che le parole sono piene di silenzi. Chi si ferma ad ascoltare e guardare quello che viene detto o scritto non può capire: il corpo e l'inconscio parlano altre lingue.

 

Un insegnante fa tante altre cose ma basta questo perché mi sia chiara la sproporzione tra quello che sento e la realtà quotidiana. Tra quello che vorrei essere e quello che non sono. Tra il contesto che desidererei e quello che esiste. Tra quello che faccio e quello che sognerei di fare. In un tempo in cui le cose sembrando andare spedite verso una mercificazione e spersonalizzazione del sistema educativo mi sento svuotato. Ma se guardo sotto le foglie secche di questo lungo inverno della scuola italiana vedo ancora qualche gemma spuntare. Non ditemi il contrario, non vi ascolterei comunque. Come un cuoco vedo colori che ancora non sono, annuso profumi inesistenti e assaporo sapori immaginari. Prima o poi sarà cucinato un buon pasto ma intanto, anche se ancora non è stato preparato, quel pasto è già padrone del mio corpo e mi nutre di briciole di futuro.

Vi invito dunque, a costo di trasgredire le regole del galateo, a passare dall'aula di scuola alla cucina, dalle parole per pensare alle parole da mangiare. La cucina è il luogo di trasformazione, nulla deve restare uguale. […] Nelle aule di scuola sono gli occhi a determinare l'etichetta. Tutte le idee devono essere chiare e distinte. Gli occhi lasciano sempre il mondo intatto perché sono sempre distanti e non possono far nulla. In cucina si insegna un'altra metafisica: il mondo non esiste per essere essere oggetto di contemplazione ma per essere mangiato” […] Un pasto è l'anima del cuoco fatta cibo.” [Rubem Alves]

 

Ma tu maestro, che mestiere fai?”