SCHUBERT MUORE QUANDO NE HA VOGLIA

La scuola tra desiderio e potere

 

di Enrico Roversi


 

La sinfonia n. 8, in si minore, comunemente nota come Incompiuta è un'opera sinfonica del musicista e compositore Franz Schubert. Alla morte di Schubert, avvenuta nel 1828, risultavano completati solo i primi due movimenti, Allegro moderato e Andante con moto. Nonostante sia un’opera non terminata, l’Incompiuta rimane la sinfonia più conosciuta del compositore austriaco e tra quelle più replicate nel mondo.

Vi propongo la lettura di questo raccontino:

 

Il direttore generale di un’azienda riceve un invito per un grande concerto, dove sarà eseguita l’Incompiuta di Schubert. Purtroppo, per un precedente impegno, gli sarà impossibile accettare l’invito. Essendo però un amante della musica classica, non vuole che l’invito vada perduto. Così lo regala al suo direttore dell’organizzazione e delle risorse umane, il quale accetta con entusiasmo, pur essendo poco abituato a quel genere di musica. Il giorno dopo al direttore generale viene spontaneo chiedere come fosse andato il concerto. Grande la sorpresa nel sentire freddezza da parte del collaboratore: «Le invierò una mia relazione appena possibile». Questa, puntuale, arriva il giorno dopo. Il contenuto è, più o meno, questo. «Primo: durante considerevoli periodi di tempo i quattro oboe non fanno nulla, quindi si potrebbe ridurne il numero e distribuire il lavoro sul resto dell’orchestra. Secondo: i dodici violini suonano le medesime note, quindi l’organico dei violinisti dovrebbe essere drasticamente ridotto. Terzo: non serve a nulla che gli ottoni ripetano i suoni che sono già stati eseguiti dagli altri». E conclude: «Se tali passaggi, ridondanti, fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto di un quarto, con evidente risparmio di tempo e risorse. Se Schubert avesse potuto tener conto di tali indicazioni avrebbe terminato la sinfonia prima di morire»

[Paolo Iacci “Breviario semiserio per manager pensanti” Guerini e Associati]

 

Non si conoscono i motivi che indussero Schubert a non ultimare la sinfonia. Moltissime sono le pagine dedicate dagli studiosi di storia della musica all’argomento, tese al tentativo di spiegare il motivo a causa del quale il compositore tedesco non ebbe a portare a compimento la sua opera. Io, che storico della musica non sono, da profano, ne avanzo una, del tutto personale e sintetizzabile nel fatto che, molto semplicemente, Schubert non avesse provato il desiderio di ultimarla.

 

Desiderio.

Nella scuola italiana, così come è andata strutturandosi, il desiderio è diventato impensabile. È impensabile perché ricorda continuamente a tutti i «manager» che l’uomo non si costruisce per circolare o decreto ministeriale. E’ impensabile perché tutto deve rientrare in un sistema rigido e predeterminato funzionale alla valutazione, presunta oggettiva, del singolo. Non c’è spazio per la spontaneità, la creatività e il libero sviluppo della personalità che sono alla base del desiderio. Tutto il percorso scolastico sta scivolando sempre di più verso un precipizio di fattori predeterminati e omologanti. Per essere valutati secondo schemi rigidi occorre aver fatto percorsi didattici esattamente uguali. Ma le energie vitali dei bambini oppongono resistenza e nelle nostre scuole sempre più spesso rileviamo tempi di attenzione brevissimi, iperattività, svogliatezza, poca resistenza alla fatica e difficoltà di apprendimento di vario genere.

 

Purtroppo a queste problematiche si sta rispondendo con un approccio medico, slegato dal pensiero pedagogico, si tende a classificare tutto come BES o DSA. La domanda sul desiderio di imparare è sistematicamente esclusa dal campo scolastico mentre, nella realtà, lo occupa interamente perché pone il rispetto e la libertà dell’alunno al centro del sistema.

 

L’istituzione scolastica tecnicizzata e burocratizzata proibisce questa domanda che per, il suo stesso funzionamento, è impensabile: “E’ possibile, e anche necessario, assegnare a dei soggetti umani, in tempi e luoghi costrittivi, su dei programmi imposti, dei compiti in grado di mobilitare liberamente il loro desiderio d’imparare?” [Philippe Meirieu, Diagnostica o educare: occorre scegliere? Tra «gestione delle differenze» e pedagogia del soggetto] 

Questa domanda mette in crisi anche i teorici della valutazione e i fautori dei test INVALSI. Un comportamento umano, traducibile nel nostro contesto con “risultato scolastico”, non è mai la conseguenza di un solo ed unico fattore, sia esso interno o esterno al soggetto. Ogni comportamento umano è così complesso che spesso è impossibile da cogliere nella sua interezza. Impossibile, perché non è possibile per noi conoscerne compiutamente tutti i fattori (quelli che si riferiscono all’inconscio, ad esempio, sono nei fatti non conoscibili). Solo ciò che è prevedibile e previsto è valutabile e la nostra scuola, dietro la maschera della meritocrazia, sta sempre di più diventando una scuola dedicata alla costruzione omologante e alla valutazione selettiva del soggetto. Tutto deve essere compiuto, nel senso di completo; tutto deve ruotare attorno ad uno schema chiuso.

 

Propongo alla vostra attenzione un esercizio di grammatica italiana svolto lo scorso anno nella mia classe: sintetizzare negli aggettivi adatti alcune locuzioni. Vediamo una delle locuzioni proposte: “Un lavoratore con poca esperienza”. La risposta prevista è, ovviamente, “inesperto”. Un bambino scrive “inesperienziato”. E’ un errore? Sicuramente. E’ da correggere? Certo che sì, ammettendo al soggetto che ha avuto una certa dose d’inventiva e di fantasia nella sua ingegneria linguistica. Un altro bambino scrive “disperato”. Questo non è un errore, è il frutto di un ragionamento che nasce dall’esperienza dell’individuo nel suo contesto esistenziale. Qui si aprono un mondo e un’esperienza di vita che non devono essere rinchiuse: è l’imprevedibile che fa irruzione nel quotidiano della nostra pratica pedagogica e didattica.

 

Si rompe lo schema, inizia l’incompiutezza. Se mi limito a correggere questo presunto errore richiudo un intero “mondo” nello schema precostituito e salvaguardo l’idea della compiutezza: obiettivo, spiegazione, esercizio, correzione, verifica dell’apprendimento in base ad una griglia valutativa rigidamente precostituita. Se non correggo e mi pongo in dialogo ed ascolto, se inizio un dibattito con il singolo e lo allargo a tutto il gruppo classe apro più mondi e navigo verso l’ignoto, la scoperta, la problematicità dell’esistenza, riconosco dignità di soggetto a chi mi sta davanti. Non è semplice entrare in questa prospettiva perché occorre uscire dalla logica del potere, il nostro potere sull’altro: pianificare i percorsi didattici senza possibilità di aperture, determinare a priori gli esiti attesi e valutare le prestazioni, dimostrare, in un delirio di onnipotenza, che è possibile plasmare e reificare un bambino. Occorre accettare e assumere come risorsa il fatto che l’essere umano è imprevedibile.

 

Fare esistere questo imprevedibile, organizzare la pratica didattica senza chiuderla, lasciare emergere il «soggetto» nella sua diversità, creare delle situazioni nelle quali la libertà abbia modo di affiorare e il bambino di rivendicarsi autore dei propri atti e di sé stesso, è questo il nostro lavoro in una scuola che, per avere senso, deve rimanere un’incompiuta.

Schubert muore quando ne ha voglia.