SI SOLLEVINO I COPERCHI

di Alessandra Sanna

 

Il banchetto, preventivamente allestito a ridosso di una parete dell’aula, è lo spazio che dovrà accogliere per diverse settimane i contenitori colorati: scatole di cartone di varia misura, personalizzate da disegni o foderate con carta da pacchi variopinta. Noto che alcune sono state decorate con estrema cura, verrò poi a sapere che sono state oggetto di un lavoro collettivo in famiglia, alcune nonne hanno applicato nei bordi nastrini e ricami. L’entusiasmo per l’imminente apertura delle “scatole della memoria” è alle stelle.

 

Siamo all’inizio dell’anno scolastico, in classe terza, e ci apprestiamo a proseguire un percorso di ricostruzione della storia personale dei bambini, avviato fin dalla prima. Ora si tratta di ripercorrere i loro itinerari biografici in maniera più formale, attraverso l'analisi di testimonianze materiali da interrogare come fonti: foto e oggetti che ricordano la loro nascita e la prima infanzia.

 

L’intento è quello di condurre i bambini a costruire un’immagine di sé a partire dal proprio passato e contemporaneamente di avviarli ad una prima conoscenza dell'indagine storica e dei suoi metodi. Il momento però diventa anche una delle tante occasioni della vita di classe in cui si favorisce la “scoperta” dell’altro attraverso il dialogo e il confronto.

 

Ci sediamo in cerchio, le scatole sulle gambe, e diamo avvio al momento atteso: i coperchi vengono sollevati e gli oggetti iniziano a parlare; l’impatto emotivo dei bambini è fortissimo: foto, calzini, biberon, peluche da tempo dimenticati, disegni che ora appaiono, ai loro occhi divertiti, quasi degli scarabocchi. Ognuno di loro racconta, sorride, tocca, interroga e risponde. Quando si raccontano, chi ascolta appare rapito da immagini che gli sono familiari, tanto simili a quelle della propria storia. C’è, tra loro, anche chi nella scatola custodisce un solo oggetto - spesso per i bambini migranti è più difficile avere a portata di mano materiali che raccontino la loro storia - ma quell’unico oggetto è carico di significati pesanti, che rimandano a luoghi e a persone lontane e si caricano per questo di una forte valenza simbolica; una foto, un “diploma scolastico", un disegno, diventano anche qualcos’altro, diventano l’occasione per parlare e presentare quasi con orgoglio una casa lontana con il suo bel giardino, una scuola con regole, tempi e giochi differenti, una storia di una cultura altra.

 

L’itinerario didattico appena avviato diventa allora l’occasione per una maggiore conoscenza dei vissuti dei compagni, di alcuni dei quali ancora non si conoscono le storie: Rajae, Minqi, Yue e Carlos sono arrivati quest’anno, direttamente dai loro paesi, e si preparano ad affrontare un percorso ricco di incognite e che probabilmente li spaventa. La conoscenza dell’italiano è minima o, per alcuni di essi, nulla. Minqi ci mostra un disegno che rappresenta alte montagne sullo sfondo e una grande casa in primo piano con tante finestre e un tetto giallo. Ci fa capire che quella è stata la sua scuola, che lì ha lasciato i suoi compagni e il suo maestro, e sorride con un po’ di imbarazzo quando i nuovi compagni iniziano a far domande su quella scuola lontana fra le montagne.

 

La presenza in classe di bambini e bambine di nazionalità non italiana spinge noi insegnanti a cambiare le modalità di comunicazione, ad ascoltare di più, ad approfittare di ogni occasione per aprire dialoghi che aprano finestre verso bisogni particolari.

 

L'esperienza delle scatole, di cui si è raccontato solo il momento di avvio, si è sviluppata lungo gli anni attraversando i diversi campi e momenti dell'esperienza scolastica e coinvolgendo tutte le maestre. Educare alla differenza è stato un consapevole “taglio didattico" seguito da noi insegnanti fin dagli anni in cui i bambini stranieri erano solo rare presenze in tutta la scuola.

 

Oggi, con la mutata realtà delle classi, è diventato un modo sempre più consapevole e necessario di fare scuola. La conoscenza delle diversità può diventare il filo conduttore che attraversa tutte le esperienze all'interno della classe; possiamo riconoscerci uguali attraverso la curiosità verso ciò che ci differenzia.

 

Ma se l’integrazione dei bambini migranti passa attraverso una relazione alimentata costantemente dal dialogo e dalla conoscenza reciproca, questa non può bastare per un loro pieno successo scolastico. È necessaria anche una corretta e piena padronanza della nuova lingua, la cui acquisizione si presenta spesso piena di difficoltà e, negli anni a venire, con il passaggio agli studi superiori, da lingua di comunicazione diventerà sempre più anche veicolo per l’apprendimento e lo studio delle altre discipline, quindi di concetti astratti e complessi.

 

Rispetto al “problema linguistico” si ha la sensazione di essere lasciati soli.

I laboratori linguistici che supportano le attività quotidiane svolte in classe, prevalentemente garantiti dagli enti locali, per quanto iniziative utili e auspicabili, hanno spesso il sapore dell'emergenza, quasi debbano affrontare i bisogni dei bambini immigrati in maniera compensativa.

 

Il progressivo taglio di insegnanti attuato negli anni da una spregiudicata politica scolastica ha determinato l'aumento del numero di alunni per classe, minando l'efficacia di interventi didattici specifici e ha privato la scuola di quelle figure che fino a qualche anno fa, anche se in misura residuale, potevano ancora garantire attività di approfondimento linguistico da realizzare per piccoli gruppi. Figure stabili, interne alla scuola e alle sue dinamiche quotidiane, in costante relazione con famiglie, insegnanti di classe e bambini, che potevano sedersi in cerchio di fronte a tante scatole colorate e assistere incuriosite – insieme a noi - alla narrazione di storie. Questi posti vuoti nel cerchio sono le cicatrici di una politica che non ci aiuta a costruire la società di domani.


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